sabato, maggio 05, 2007

La fine del vizio



“L’artista Dash Snow ha rotto il proprio citofono con un cacciavite l’altro giorno. Non ha telefono. Non usa l’e-mail. Quindi, se ci volete parlare, dovete recarvi sotto il suo appartamento a Bowery e urlare. Non si affaccerà alla finestra: ha un periscopio con cui controlla prima chi siete”

Efficace attacco dell’articolo “Chasing Dash” apparso sulla rivista New York a firma Ariel Levy: costruisce in poche righe l’atmosfera di riservatezza ai confini con la paranoia che circonda Dash Snow, artista newyorkese ex-graffitista e rampollo di una famiglia dalle immense fortune. Detenuto in un carcere minorile dai tredici ai quindici anni, impregnato di alcol e droghe, fuori controllo. Affascinato da ogni cosa remotamente anti-americana (conserva ritagli di Saddam dal New York Post), titola lavori Fuck The Police e, ultimamente, usa molto il proprio sperma per i propri pezzi. L’attenzione di Ariel Levy si concentra in modo particolare sulla relazione che lo lega ai colleghi Dan Colen e Ryan McGinley. Un walzer a tre che, da quanto si intuisce, contribuisce a mantenere l’eccessivo Dash Snow in vita: l’articolo è corredato da una serie di foto in cui Snow, Colen e McGinley sono stesi sul lettone, circondati da posacenere colmi, coltelli, teschi e libri.

In Frieze di Aprile, arriva la contromossa serenissima di Nancy Spector, curatrice presso i Guggenheim Museum di New York. Nel contesto di una riesamina dell’impatto del femminismo sulla cultura visiva in due mostre (a Los Angeles e a New York) e della distanza presa da alcune artiste nei confronti della storia del movimento (“perché pensano che tutte le battaglie siano state vinte o perché sminuiscono l’impatto del genere”), la Spector si chiede perché il mondo dell’arte è affascinato dai cattivi ragazzi:


“Il New York (che ama decisamente l’hype) ha recentemente pubblicato un encomio alle buffonerie dei wonder-boys Dash Snow, Ryan McGinley e Dan Colen che, apparentemente, non sanno – o se ne disinteressano – che altri prima di loro hanno usato l’eiaculazione nei propri lavori. Secondo la posizione adulatrice di Ariel Levy, questi artisti sono ossessionati l’uno dall’altro e dai propri peni in una catena di feste, crimini minori e, qualche volta, arte. Il fatto che Snow discenda da DeMenil non puo’ che aggiungere sensazionalismo all’articolo. Non lo scrivo per sminuire il loro operato ma per chiedere come mai questo tipo di pratica artistica masturbatoria intercetta l’interesse di critici e collezionisti nella nostra cultura «illuminata» e « post-gender». È’ sintomatico di un ulteriore attacco conservatore nei confronti delle donne che cercano uno status quo più bilanciato? O semplicemente amnesia culturale? Potrebbe essere una buona domanda per la Levy. Lei è l’autrice di Female Chauvinist Pigs: Women and the Rise of Ranch Culture (2005) in cui critica ferocemente questa generazione di giovani donne che eguagliano manifestazione di sessualità – dai concorsi di miss maglietta bagnata e classi di lapdance fino agli spogliarelli di fronte alle webcam – con la liberazione e responsabilizzazione. Anche se queste argomentazioni sono convincenti e urgenti, dimentica di mettere in discussione l’esistenza di un doppio standard”







Basta dare uno sguardo alle polaroid di Snow per intuire che, in parte, si tratta di un’infiltrazione nell’ambito del white cube di un immaginario prosperato lungamente nella pop culture americana e che ha trovato uno dei maggiori centri di propagazione nel free press Vice Magazine: una decadenza fotogenica che flirta con la spazzatura e la criminalità. Nostalgia per i tempi in cui Lower East Side era ancora pericoloso e creativo, impacchettata per gli hipster.

La prima volta che ho incontrato Vice è stato in un loro store nel quartiere Nolita nel 2002. Sembrava un revival della lad culture inglese di qualche anno prima, la rivista era davvero divertente e va riconosciuto al fondatore Gavin McInnes un enorme intuito per il business dei media e per l’auto promozione spericolata: McInnes negli anni ha preso posizioni pro invasione Irak, anti-immigrazione. Ha filtrato con le subculture white power e con alcuni dei personaggi piu' deteriori del conservatorismo statunitense. Tutta ironia, ci ha tenuto a spiegare poi. Junkie neocon chic. La scarsa lungimiranza è arrivata al lancio di versioni internazionali del free press che si sono trovate di fronte alla difficoltà di declinare per i vari mercati uno humour, un’idea di coolness quasi rionale. Praticamente impossibile conservare la forza originale.

Ma nel lavoro degli artisti menzionati nell’articolo di Frieze è difficile rintracciare le controversie che hanno portato Vice al successo. Legittimo che la Spector trovi puerili i tre discoli e non ami il trionfalismo dell’articolo del New York, ma sorprende la pretesa di “difendere” il mercato dell’arte da questa infiltrazione e di tutelare le richieste di uno “status quo” più equilibrato. Come se da un lato il sistema dell’arte fosse una roccaforte di politesse progressista, uno spazio di difesa del corretto pensare e, dall’atro, un’arena di concertazioni – anche al di fuori delle istituzioni museali - in cui si puo’ raggiungere un punto di corretto equilibrio. La Spector desidera problematizzare l’interesse di critici e collezionisti per i cattivi ragazzi anche se non si capisce in quale maniera il loro lavoro o anche solo le immagini che li ritraggono a fumare in un letto circondati da teschi possa essere offensivo, lesivo o in qualche modo opponibile alle istanze di un’indagine sull’impatto del femminismo sulle arti visive.

1 Comments:

Blogger baroccogiapponese said...

Ma da che mondo è mondo, l'arte la fanno i cattivi ragazzi! E mi vien da dire: "E meno male!". Parola di bravo ragazzo con una passione per i cattivi ragazzi.

7:40 PM  

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